Nella storia della letteratura italiana la sola poesia petrarchesca regge il paragone con quella leopardiana, non solo in lirismo, ma anche in erudizione e stile. Tuttavia, se in quello spostamento del fulcro da dio all’uomo che è il passaggio dal cristianissimo medioevo all'antropocentrico e quindi laico umanesimo, il Petrarca, e la sua poesia, trovano una loro ragion d'essere, così non è per Leopardi.Nella sua epoca tutta l'Italia canta il valore, inneggia al Risorgimento, sospira il progresso, egli è li, "alla fioca lucerna poetando", a cantare qualcosa di diverso. Assolutamente contro la sua era, in quel momento la sua poesia è fuori dal tempo. Va oltre le concezioni dei contemporanei con una superiorità schiacciante; liquida il progresso, le nuove scienze, il suo tempo tutto, senza sforzo. Gli basta la palinodia al marchese Gino Capponi e qualche altro scritto, i Paralipomeni e i Nuovi credenti, per giustificare in pieno la sua poesia. Leopardi scava nel tempo e nell'uomo cogliendo l'essenza e cantandola. E sarà proprio questo scavare, questo andare oltre che farà del poeta di Recanati, il primo e massimo moderno. In verità la poesia di Leopardi non è fuori dal tempo ma è avanti nel tempo. L'inquietudine, l'ateismo, lo sgomento leopardiano non sono sentimenti dell'età romantica, bensì diun'epoca che deve ancora sorgere. L'oggi. In questo senso Leopardi è un miracolo poetico; non
soltanto per la straordinarietà del verso e per la sapienza nella costruzione poetica, ma anche per la filosofia che ne sta alla base. Il pensiero di Leopardi è un filo ininterrotto che attraversa diverse fasi ma che si snoda a partire da una scoperta fondamentale, quella dell’Unsinn. Il non senso delle cose nel loro fondamento. È una ontologia del nulla. Ed il nulla mostra le cose nella loro fragilità, nella loro effimerità ma proprio per questo le rende amabili in quanto sospese tra una doppia negazione; il loro principio e la loro fine. “A noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla” (Ad Angelo Mai, vv 74-75). Ed è da questa amabilità delle cose che nasce la poesia della pietà. Pensiamo all’Ultimo canto di Saffo, storia dell’infelicità di un animo nobile e delicato posto in un corpo brutto e giovane. Una condizione nella quale il poeta stesso doveva identificarsi; arriviamo così alla conclusione che questo primo sentimento non è rivolto ad altri che a se stesso. Situazione analoga per la pietà mostrata nei confronti di Nerina o di Silvia; il dolore dell’oggetto poetico è quello del soggetto. Viene così a crearsi una corrispondenza tra oggetto e soggetto nella quale quest’ultimo ha un posizione dominante. La poesia di Leopardi è pura poesia dell’io. Foscolo ha bisogno dei Sepolcri per parlare delle “umane sorti”; Leopardi no, è autoreferente. Ogni verso ha la sua genesi nel sentimento del poeta. Da ciò che è amabile, per i motivi già detti, nasce la pietà, da ciò che è ammirabile nasce il titanismo. Ettore, l’eroe sconfitto, è amabile. Achille, l’eroe virtuoso, è
ammirabile. E sono proprio queste figure a far nascere il titanismo in Leopardi. Un titanismo comunque che, inizialmente, non conosce ancora l’ineluttabilità di ciò contro cui combatte; più alfieriano che romantico. Lo vediamo nella canzone All’Italia, “L’armi, qua l’armi. Io solo / combatterò, procomberò sol io” (All’Italia, vv 37-38). Qui la responsabilità della sconfitta è data solo ai codardi contemporanei, che sconoscono la virtù antica. Situazione diversa, invece, nell'altra canzone del suicidio “Bruto minore”. Qui il titanismo storico si tramuta in titanismo cosmico, assumendo così pieni caratteri romantici. Leopardi abbraccerà in pieno la filosofia di Bruto, disprezzando ogni forma di consolazione. Posizione che verrà comunque abbandonata negli anni del
silenzio della poesia. È il periodo più buio nella vita di Leopardi; chiuso nella riflessione che lo porterà alla composizione delle Operette morali, il poeta assumerà posizioni quasi stoiche, di indifferenza rispetto al mondo. Periodo in cui si ritrova nei panni di coloro che aveva disprezzato nel “Bruto
minore”. “De necessari danni / si consola il plebeo” (Bruto minore, vv 34-35) aveva detto. Ma questa fase verrà superata e sarà proprio in un’Operetta, Dialogo di Tristano e di un amico, che Leopardi traccerà la definitiva forma del suo titanismo; una fiera compiacenza, l’orgoglio di essere solo ad avere il coraggio di affrontare il vero, cioè affrontare una vita quasi impossibile a vivere con lacertezza dell’ebrezza del dolore. Titanismo che echeggerà anche nei canti del ciclo di Aspasia, a prova del fatto che questo nucleo di cinque poesie non traccia affatto un dirottamento della poetica leopardiana come sostiene gran parte della critica, ma soltanto un cambiamento dello stile. Abbiamo
in Aspasia il sorriso del poeta, ormai maturo, paragonabile a quello di Bruto “e maligno alle nere ombre sorride.” (Bruto minore vv 45). Si è dimostrata così una certa soluzione di continuità, almeno per quanto riguarda il titanismo, tra il Leopardi giovane e quello maturo. Lo stesso vale per la pietà. Il risorgimento della poesia altro non è che il riaffiorare di quei sentimenti grandiosi di cui si era
nutrita l’arte leopardiana. Non a caso egli stesso definirà A Silvia e il Risorgimento <<versi veramente all’antica, con quel mio cuore di una volta>>. Direi anche migliori di quelli passati; la pietà raggiunta in A Silvia sfiorerà i toni di un inno alla vita nel comune sentire, nel compatire che altro non è se non
l’essenza della pietà. "Mirava il ciel sereno, / le vie dorate e gli orti, / e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. / Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno. / Che pensieri soavi, /che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allor ci apparia /la vita umana e il fato!”. Così come nelle Ricordanze: “Ivi danzando, in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventú, quando spegneali il fato, / e giacevi.”. Non solo questi versi, citati qui ad esempio, ma entrambi i canti sono il dolore che il poeta compatisce nel ricordo di Silvia e Nerina; e nonostante ciò essi sono un meraviglioso inno alla vita. Infine, questi due sentimenti di cui si è parlato, che si erano sfiorati in tutti i canti, finiscono per intrecciarsi nella Ginestra. E simbolicamente in un verso “Non so se il riso o la pietà prevale”. Il riso, simbolo di un titanismo ormai caratterizzato da taglienti sfumature ironiche e sarcastiche, e la pietà, sentimento rimasto intatto per tutta la vita. Titanismo e
pietà ancora una volta sostanzialmente unite nell'ultima strofa. Accompagnato tutta la vita da questi due sentimenti, Leopardi non indica ne uno né l’altro. Non il lamento, e neppure l’odio verso l’oppressore. Ma consapevolezza del comune destino di infelicità, senza viltà e senza superbia, su cui fondare le ragioni della solidarietà e della fratellanza, prima di essere inghiottiti dal terrificante nulla.
Alessio Tartaro
soltanto per la straordinarietà del verso e per la sapienza nella costruzione poetica, ma anche per la filosofia che ne sta alla base. Il pensiero di Leopardi è un filo ininterrotto che attraversa diverse fasi ma che si snoda a partire da una scoperta fondamentale, quella dell’Unsinn. Il non senso delle cose nel loro fondamento. È una ontologia del nulla. Ed il nulla mostra le cose nella loro fragilità, nella loro effimerità ma proprio per questo le rende amabili in quanto sospese tra una doppia negazione; il loro principio e la loro fine. “A noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla” (Ad Angelo Mai, vv 74-75). Ed è da questa amabilità delle cose che nasce la poesia della pietà. Pensiamo all’Ultimo canto di Saffo, storia dell’infelicità di un animo nobile e delicato posto in un corpo brutto e giovane. Una condizione nella quale il poeta stesso doveva identificarsi; arriviamo così alla conclusione che questo primo sentimento non è rivolto ad altri che a se stesso. Situazione analoga per la pietà mostrata nei confronti di Nerina o di Silvia; il dolore dell’oggetto poetico è quello del soggetto. Viene così a crearsi una corrispondenza tra oggetto e soggetto nella quale quest’ultimo ha un posizione dominante. La poesia di Leopardi è pura poesia dell’io. Foscolo ha bisogno dei Sepolcri per parlare delle “umane sorti”; Leopardi no, è autoreferente. Ogni verso ha la sua genesi nel sentimento del poeta. Da ciò che è amabile, per i motivi già detti, nasce la pietà, da ciò che è ammirabile nasce il titanismo. Ettore, l’eroe sconfitto, è amabile. Achille, l’eroe virtuoso, è
ammirabile. E sono proprio queste figure a far nascere il titanismo in Leopardi. Un titanismo comunque che, inizialmente, non conosce ancora l’ineluttabilità di ciò contro cui combatte; più alfieriano che romantico. Lo vediamo nella canzone All’Italia, “L’armi, qua l’armi. Io solo / combatterò, procomberò sol io” (All’Italia, vv 37-38). Qui la responsabilità della sconfitta è data solo ai codardi contemporanei, che sconoscono la virtù antica. Situazione diversa, invece, nell'altra canzone del suicidio “Bruto minore”. Qui il titanismo storico si tramuta in titanismo cosmico, assumendo così pieni caratteri romantici. Leopardi abbraccerà in pieno la filosofia di Bruto, disprezzando ogni forma di consolazione. Posizione che verrà comunque abbandonata negli anni del
silenzio della poesia. È il periodo più buio nella vita di Leopardi; chiuso nella riflessione che lo porterà alla composizione delle Operette morali, il poeta assumerà posizioni quasi stoiche, di indifferenza rispetto al mondo. Periodo in cui si ritrova nei panni di coloro che aveva disprezzato nel “Bruto
minore”. “De necessari danni / si consola il plebeo” (Bruto minore, vv 34-35) aveva detto. Ma questa fase verrà superata e sarà proprio in un’Operetta, Dialogo di Tristano e di un amico, che Leopardi traccerà la definitiva forma del suo titanismo; una fiera compiacenza, l’orgoglio di essere solo ad avere il coraggio di affrontare il vero, cioè affrontare una vita quasi impossibile a vivere con lacertezza dell’ebrezza del dolore. Titanismo che echeggerà anche nei canti del ciclo di Aspasia, a prova del fatto che questo nucleo di cinque poesie non traccia affatto un dirottamento della poetica leopardiana come sostiene gran parte della critica, ma soltanto un cambiamento dello stile. Abbiamo
in Aspasia il sorriso del poeta, ormai maturo, paragonabile a quello di Bruto “e maligno alle nere ombre sorride.” (Bruto minore vv 45). Si è dimostrata così una certa soluzione di continuità, almeno per quanto riguarda il titanismo, tra il Leopardi giovane e quello maturo. Lo stesso vale per la pietà. Il risorgimento della poesia altro non è che il riaffiorare di quei sentimenti grandiosi di cui si era
nutrita l’arte leopardiana. Non a caso egli stesso definirà A Silvia e il Risorgimento <<versi veramente all’antica, con quel mio cuore di una volta>>. Direi anche migliori di quelli passati; la pietà raggiunta in A Silvia sfiorerà i toni di un inno alla vita nel comune sentire, nel compatire che altro non è se non
l’essenza della pietà. "Mirava il ciel sereno, / le vie dorate e gli orti, / e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. / Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno. / Che pensieri soavi, /che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allor ci apparia /la vita umana e il fato!”. Così come nelle Ricordanze: “Ivi danzando, in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventú, quando spegneali il fato, / e giacevi.”. Non solo questi versi, citati qui ad esempio, ma entrambi i canti sono il dolore che il poeta compatisce nel ricordo di Silvia e Nerina; e nonostante ciò essi sono un meraviglioso inno alla vita. Infine, questi due sentimenti di cui si è parlato, che si erano sfiorati in tutti i canti, finiscono per intrecciarsi nella Ginestra. E simbolicamente in un verso “Non so se il riso o la pietà prevale”. Il riso, simbolo di un titanismo ormai caratterizzato da taglienti sfumature ironiche e sarcastiche, e la pietà, sentimento rimasto intatto per tutta la vita. Titanismo e
pietà ancora una volta sostanzialmente unite nell'ultima strofa. Accompagnato tutta la vita da questi due sentimenti, Leopardi non indica ne uno né l’altro. Non il lamento, e neppure l’odio verso l’oppressore. Ma consapevolezza del comune destino di infelicità, senza viltà e senza superbia, su cui fondare le ragioni della solidarietà e della fratellanza, prima di essere inghiottiti dal terrificante nulla.
Alessio Tartaro