Quando, sul finire degli anni '70, Verga concepì quel maestoso progetto letterario che doveva essere “Il ciclo dei vinti” egli aveva ormai una coscienza letteraria ed ideologica, datagli dalla carriera e dalle vicende della sua vita, che doveva essere il presupposto del ciclo. Questa coscienza rappresentava le fondamenta di un qualcosa che doveva poi ergersi da se. Ed allora, già li, nell'origine più profonda della creazione artistica, Verga presenta inconciliabili contraddizioni. La prima è la sua idea di progresso. Un'idea di fronte alla quale già il nascente marxismo si stava scindendo, e che aveva messo in cattiva luce Zola, attento solo al moto complessivo, al cammino trionfale dell'umanità. Un'umanità che, in questo continuo tendere al progresso aveva perso pezzi per strada. Ecco Verga colloca la sua ideologia sul progresso proprio in questo piccolo spazio dimenticato dai francesi. Chi è degno di attenzione non è più l'umanità che avanza, ma chi è caduto per strada, chi, per dirla alla Verga, la corrente ha deposti sulla riva. Sono i vinti. Verga assume, dunque, il punto di vista dell'osservatore che, travolto anch'esso dalla fiumana del progresso, si guarda intorno e da attenzioni ai vinti che levano le braccia disperate. Da qui l'impersonalità. L'oggetto dice già tutto da se, come quelli che davano calci nel di dietro a Mazzarò, e adesso gli parlano col berretto in mano. La materia detta lo stile. Abbiamo una teoria dei livelli sociologici-espressivi per la quale ogni romanzo avrà la sua fisionomia speciale, resa con i mezzi adatti. Questa è, allo stesso tempo, l'esasperazione e la negazione del naturalismo. Esasperazione in quanto pretende di adattare continuamente la lente all'oggetto e negazione in quanto rinuncia a quell'unicità del metodo artistico divenuto ormai pseudoscientifico, rilanciando una responsabilità personale dell'artista, che ha il compito di creare di volta in volta soluzioni estetiche che si adeguino all'oggetto. Altra contraddizione quindi. Come contraddittorio è la concezione che Verga ha del mondo popolare. Una concezione nata più come antitesi della realtà vissuta, che frutto di esperienza vissuta. Se a Milano si viveva in una atmosfera di banche e imprese industriali, in quel mondo popolare siciliano, che era il solo mondo popolare che interessasse a Verga, doveva viversi in una quiete patriarcale. Ed è riferendosi a quel primo abbozzo dei Malavoglia, Padron 'Ntoni, che Verga dichiara di voler dargli un'impronta di fresco e di sereno raccoglimento. Il che nel libro manca. Perché più l'artista osserva Aci Trezza, intento a scoprire quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio, più si accorge che essa è come Milano. Che anche lì ci sono i vinti. Che i vinti sono ovunque. E allora il mito del progresso è bello che dileguato, già alla prima tappa del ciclo. E l'unica verità resta quella di Alessi e Nunziata, quella dell'ideale dell'ostrica, del rinunciare alla vita. Tutti gli altri personaggi hanno delle colpe; la colpa di volere mangiare pasta e carne ogni giorno. Ma la pena per la loro hybris è assolutamente sproporzionata. Perchè ogni qual volta la famiglia sta per rialzarsi arriva qualcosa ad abbattere tutto? Certo nella vita reale può essere così, ma può anche essere il contrario. Ed ecco emerge l'ennesima contraddizione verghiana: da un lato la spinta verista a comprendere i processi sociali, dall'altro la convinzione, tutta ideologica e sentimentalista, che la vita è fallimento e fatica, e che ogni tentativo di progresso costa pena e si paga. Ma come si può condannarli, quando essi conservano comunque la coscienza e il rispetto per leggi non scritte che reggono la convivenza tra gli uomini? Ecco di nuovo quel giudizio sospeso, perchè deve essere sospeso. E allora dov'è il messaggio. Forse non c'è, perchè i Malavoglia dovevano essere solo un tassello di un ciclo che avrebbe dato un messaggio. Ma alla fine 'Ntoni dice di avere imparato una lezione. Una lezione di economia sociale, che l'ordine costituito non va rotto, e che restare attaccati allo scoglio è una legge supresa. Ma anche una lezione morale, che quella legge deve essere la propria legge morale, e chi sbaglia paga. Ed alla fine la sconfitta di 'Ntoni non è soltanto sociale e morale, ma anche affettiva. Egli riscopre quegli affetti che riempiono la vita e a cui adesso deve rinunciare. E come in Manzoni, dicendo “la sventurata rispose”, fonde pietà e condanna, fato e responsabilità, così Verga scaccia 'Ntoni dall'Eden ma gli da la coscienza dell'Eden. Che egli ha perso, per colpa sua. I Malavoglia, quindi, è il primo romanzo del ciclo, ma tanto grande da potere essere letto anche al di fuori del ciclo. Ed esso rappresenta anche il vertice stilistico della produzione di Verga. Il narratore è come un dio onnipresente e nascosto. Il racconto è filtrato attraverso un coro di parlanti popolare i quali esprimono l'anima folklorica del villaggio. Verga ha scelto di raccontare gli eventi come essi si rispecchiano nelle teste e nei cuori dei suoi personaggi. Approda così ad uno stile in cui la struttura e la sintassi dialettale non coinvolge il lessico e la morfologia, ma è finalizzata alla resa impressionista in termini di mimesi pseudo-oggettiva. Riuscendo così a soddisfare le istanze di impersonalità ed oggettività, Verga finisce per allontanare infinitamente il narratore e l'oggetto narrante, rendendo impossibile al primo ogni rapporto critico e dialettico con il secondo, chiudendolo in un carattere di mito remoto ed inaccessibile, lontano dal realismo. Criterio che verrà abbandonato nel secondo romanzo del ciclo, Mastro-don Gesualdo. Qui la narrazione si muove in una direzione più demistificatrice e dissacrante, quindi più reale. Verga intraprende una strada più espressionista, ed è proprio nel Mastro-don Gesualdo che ritroviamo i primi esempi di tecnica espressionista del ritratto, dove la deformazione grottesca-iperbolica delle linee e delle forme fisiche dei personaggi (vedi il ritratto della Margarone) rispecchiano il mondo fatiscente e decrepito della vecchia aristocrazia, di un mondo in disfacimento. Verga esplora quindi soluzioni prima impressionistiche, poi espressionistiche per adattare lo stile alla materia. Ma quali altre frontiere avrebbe dovuto esplorare per proseguire nel suo intento? Probabilmente frontiere della narrazione che neppure esistono. Frontiere che neppure Pirandello e De Roberto esploreranno, continuando a proseguire su quella linea espressionista, la più giusta per una visione critica e demistificante della realtà. Quindi, se il repellente alla continuazione del ciclo non fu lo scarso successo commerciale dei due romanzi, probabilmente fu questo; la continua ricerca di uno stile nuovo. Stile che comunque non riuscì a trovare per la realizzazione de La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso.
Alessio Tartaro
Alessio Tartaro