Nel corso di questi primi anni di studio sono riuscito ad apprendere aspetti dei vari autori che trascendono il nozionismo tipico della manualistica scolastica. Il che mi ha permesso di assaporare ancor di più, da un lato, l'estro dell'autore, la bellezza del suo verso, e dall'altro me ne ha disvelato i suoi limiti. Limiti che, sinceramente, ho sempre posto ad una distanza infinita rispetto ai miei e, ancor di più, rispetto alla realtà che mi circonda. Per cui posso anche rimproverare al Tasso di essersi fermato sulla soglia che varcherà poi Leopardi, ma non gliene potrò mai fare motivo di demerito. Questa è anche la ragione per cui mi sono sempre approcciato a questi autori con intenti celebrativi, a tratti, per i preferiti, anche apologetici, ma sempre e comunque reverenziali. Non che non abbia sviluppato un senso critico nei confronti dell'argomento che via via si è trattato, anzi le letture mi hanno spinto proprio in questa direzione, piuttosto perché riconosco una qualunque mia critica, stilistica o ideologica che sia, assolutamente debole ed inefficace quantunque gli attribuisca un grande valore in quanto mia. Significa che adesso, ragionando di d'Annunzio, seppur le mie posizioni politico-ideologiche si discostino dalle sue, anzi in esse trovino il loro opposto, il mio giudizio non verrà assolutamente influenzato. Perché l'uomo muore, il genio sopravvive. E Gabriele d'Annunzio è stato un genio. Mentre le vicende dell'uomo verranno coperte dalle macerie dell'infame carro della storia, il verso del genio echeggerà “finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane” per dirla alla Foscolo, dal quale d'Annunzio avrebbe certamente potuto imparare un po' di dignità. Ma per d'Annunzio essere se stessi coincideva con essere ciò che ci si immaginava. Così le sregolatezza della vita dell'uomo sono le manifestazioni della smania del genio. Un genio che voleva essere genio, questo è d'Annunzio. Ha saputo recuperare una visione della realtà di matrice classica, o comunque classicheggiante, e fonderla con le esperienze decadenti del vitalismo e del sensualismo. Il genio era esteta. La vita si snodava da quella dialettica arte-vita. L'armoniosa bellezza del verso è una costante di tutta la sua produzione poetica. Il verso è tutto è l'espressione che simboleggia questa tendenza cultuale di approccio all'opera d'arte che, di li a poco, sarebbe scomparsa. Così come il memento audere semper rispecchia quell'esigenza del genio di realizzarsi in un vivere inimitabile. E nella narrazione de Il Piacere incontriamo straordinarie contemplazioni della bellezza, come il magnifico ritratto di quella Roma nevosa, un po' piena, un po' vuota, senz'altro decadente. Va così: che per uno spirito così smanioso l'essere esteta, libero, quasi dandy, ma pur sempre espressione di quella borghesia al baratro, non basta. Serve di più. Serve il contatto con l'umanità agglomerata e palpitante. Il teatro. La lettura di Nietzsche lo suggestiona in modo esclusivamente letterario, il viaggio in Grecia lo spinge verso la tragedia; compone La città morta. Anche in questo caso d'Annunzio attinge al classicismo. Recupera interamente la struttura greca della tragedia per reinterpretarla in chiave moderna. Ne viene fuori un dramma statico, dove l'azione è bloccata dalla riflessione, un dramma di sole parole, tendente al catartico senza raggiungerlo. Il genio non è più soltanto esteta, ma anche padrone di quelle folle oceaniche. È esteta-superuomo. L'ulteriore manifestazione di quello spirito grandioso, futurista ante litteram. Nonostante considerasse Marinetti un cretino fosforescente, individuare in d'Annunzio tratti fondamentalmente futuristi è cosa facile; la passione per la velocità, l'interessa per la tecnologia. Elementi che lo trasportano al di là del suo tempo. Ma ad essi si accosta un tendenza che lo trascina indietro, alla gloria classica, fino all'anelito verso una condizione astorica e atemporale di fusione con la natura, che ispira un verso nuovo “I miei carmi son prole..” (Le stirpi canore). Nascono, in questo clima di continua tensione tra il voler superare l'uomo e voler regredire da esso fino a diventare un tutt'uno con quell'anima mundi che è la vera religiosità di d'Annunzio, le Laudi. Un progetto grandioso che, diviso in 7 libri nominati con le principali stelle delle Pleiadi, avrebbe dovuto dare origine ad un'opera unitaria, al cui interno ogni espressione della vita avrebbe trovato il proprio canto. Rimase incompleto. Ma fu abbastanza per fare delle Laudi uno dei testi più significativi della sua epoca. Ed, entrando dentro quest'opera, ci si accorge facilmente come una raccolta straordinaria quale l'Alcyone non compariva in Italia dal Carducci, forse anche prima; e, ancora più fondo, alcune liriche, La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, Stabat nuda aestas, I pastori, Le stirpe canore, rappresentano vertici della Letteratura italiana. Il genio sta tutto qui. Nell'evocare immagini nascoste che una volte raggiunte svaniscono (e qui d'Annunzio è debitore al più grande genio della letteratura, Leopardi, si vedano, per esempio, gli influssi leopardiani ne La sera fiesolana). “Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. / Il ponente schiumò nei sui capegli. / Immensa apparve , immensa nudità” (Stabat nuda aestas). Immagini delicate, estremamente sensuali, di carica erotica ma mai volgari. “Tra le palpebre gli occhi / son come polle tra l'erbe” (La pioggia nel pineto). Ma anche immagini forti “il verde vigor rude” che conservano una plasticità sensazionale. Il verso del d'Annunzio conserva, ancora oggi, una potenza evocativa straordinaria. Quel “Taci”, incipit tra i più indimenticabili della poesia italiana, riesce a trasportare in quel microcosmo dannunziano in cui la vita è ancora “fresca e aulente”. Una vita lontana, che rievoca il mito ma che è, a sua volta, essa stessa divenuta mito, che si rende eterna nell'arte grazie al volere del genio.
Alessio Tartaro
Risplenderà su le sciagure umane” per dirla alla Foscolo, dal quale d'Annunzio avrebbe certamente potuto imparare un po' di dignità. Ma per d'Annunzio essere se stessi coincideva con essere ciò che ci si immaginava. Così le sregolatezza della vita dell'uomo sono le manifestazioni della smania del genio. Un genio che voleva essere genio, questo è d'Annunzio. Ha saputo recuperare una visione della realtà di matrice classica, o comunque classicheggiante, e fonderla con le esperienze decadenti del vitalismo e del sensualismo. Il genio era esteta. La vita si snodava da quella dialettica arte-vita. L'armoniosa bellezza del verso è una costante di tutta la sua produzione poetica. Il verso è tutto è l'espressione che simboleggia questa tendenza cultuale di approccio all'opera d'arte che, di li a poco, sarebbe scomparsa. Così come il memento audere semper rispecchia quell'esigenza del genio di realizzarsi in un vivere inimitabile. E nella narrazione de Il Piacere incontriamo straordinarie contemplazioni della bellezza, come il magnifico ritratto di quella Roma nevosa, un po' piena, un po' vuota, senz'altro decadente. Va così: che per uno spirito così smanioso l'essere esteta, libero, quasi dandy, ma pur sempre espressione di quella borghesia al baratro, non basta. Serve di più. Serve il contatto con l'umanità agglomerata e palpitante. Il teatro. La lettura di Nietzsche lo suggestiona in modo esclusivamente letterario, il viaggio in Grecia lo spinge verso la tragedia; compone La città morta. Anche in questo caso d'Annunzio attinge al classicismo. Recupera interamente la struttura greca della tragedia per reinterpretarla in chiave moderna. Ne viene fuori un dramma statico, dove l'azione è bloccata dalla riflessione, un dramma di sole parole, tendente al catartico senza raggiungerlo. Il genio non è più soltanto esteta, ma anche padrone di quelle folle oceaniche. È esteta-superuomo. L'ulteriore manifestazione di quello spirito grandioso, futurista ante litteram. Nonostante considerasse Marinetti un cretino fosforescente, individuare in d'Annunzio tratti fondamentalmente futuristi è cosa facile; la passione per la velocità, l'interessa per la tecnologia. Elementi che lo trasportano al di là del suo tempo. Ma ad essi si accosta un tendenza che lo trascina indietro, alla gloria classica, fino all'anelito verso una condizione astorica e atemporale di fusione con la natura, che ispira un verso nuovo “I miei carmi son prole..” (Le stirpi canore). Nascono, in questo clima di continua tensione tra il voler superare l'uomo e voler regredire da esso fino a diventare un tutt'uno con quell'anima mundi che è la vera religiosità di d'Annunzio, le Laudi. Un progetto grandioso che, diviso in 7 libri nominati con le principali stelle delle Pleiadi, avrebbe dovuto dare origine ad un'opera unitaria, al cui interno ogni espressione della vita avrebbe trovato il proprio canto. Rimase incompleto. Ma fu abbastanza per fare delle Laudi uno dei testi più significativi della sua epoca. Ed, entrando dentro quest'opera, ci si accorge facilmente come una raccolta straordinaria quale l'Alcyone non compariva in Italia dal Carducci, forse anche prima; e, ancora più fondo, alcune liriche, La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, Stabat nuda aestas, I pastori, Le stirpe canore, rappresentano vertici della Letteratura italiana. Il genio sta tutto qui. Nell'evocare immagini nascoste che una volte raggiunte svaniscono (e qui d'Annunzio è debitore al più grande genio della letteratura, Leopardi, si vedano, per esempio, gli influssi leopardiani ne La sera fiesolana). “Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. / Il ponente schiumò nei sui capegli. / Immensa apparve , immensa nudità” (Stabat nuda aestas). Immagini delicate, estremamente sensuali, di carica erotica ma mai volgari. “Tra le palpebre gli occhi / son come polle tra l'erbe” (La pioggia nel pineto). Ma anche immagini forti “il verde vigor rude” che conservano una plasticità sensazionale. Il verso del d'Annunzio conserva, ancora oggi, una potenza evocativa straordinaria. Quel “Taci”, incipit tra i più indimenticabili della poesia italiana, riesce a trasportare in quel microcosmo dannunziano in cui la vita è ancora “fresca e aulente”. Una vita lontana, che rievoca il mito ma che è, a sua volta, essa stessa divenuta mito, che si rende eterna nell'arte grazie al volere del genio.
Alessio Tartaro