Alessio e Salvatore Tartaro
Le importanti ricerche di Paul Watzlawick nell'ambito della comunicazione portarono il filosofo americano alla formulazione di un assioma rivoluzionario, ovvero l'impossibilità della non comunicazione in presenza di altre persone. Di fatto, questo assioma rappresenta il culmine di un processo di ripensamento e di rivalutazione a proposito della comunicazione a cui molti studiosi si erano interessati fin dall'inizio del secolo XX; significa che la comunicazione è molto di più rispetto a quella che semplicemente si serve del linguaggio verbale in quanto rappresenta, concepita in questo nuovo modo, addirittura un aspetto peculiare dell'esserci. Se ci sei allora comunichi. Trovarsi in metropolitana e non rivolgersi in alcun modo a chi ci sta accanto significa comunicargli il proprio disinteressamento alle sue vicende, così come il suo atteggiamento rappresenta una risposta positiva al nostro messaggio. Adesso, considerare i nuovi canali di cui oggi la comunicazione si serve, ovvero analizzare la comunicazione in una sua forma nuova, o, se non nuova, quantomeno in una sua evoluzione diffusasi repentinamente ed in modo inaspettato come è stato l'avvento di internet, significa dover considerare aspetti nuovi che sono oggi sempre più oggetto di studio. Tuttavia, riferendoci a quell'assioma che rappresenta già una definizione enormemente dilatata ed espansa del senso della comunicazione, è evidente come l'emissione di una nostra informazione nel mare della rete, che sia un forum o un social-network, rappresenti soltanto un tentativo sostanzialmente smorzato di comunicare. In primo luogo l'affermazione quale atto attraverso il quale l'individuo estrinseca le propria volontà è strutturalmente legata al contesto storico di riferimento che non si rileva allorché essa rimane incanalata tra i filtri dell'informazione digitale. L'assenza del vincolo tra affermazione e contesto costituisce un grave deficit che inficia la rilevanza qualitativa di ogni affermazione che si ritrova in competizione in un eterogeneo sistema di informazioni egualmente decontestualizzate che limitano a vicenda la propria portata sostanziale. Ciò vuol dire che, in una così variegata platea d'informazione, l'impossibilità di ricostruire il vincolo tra l'affermazione e il contesto di rifermento , rende impossibile ad ogni eventuale interlocutore assimilare la portata sostanziale di ognuna di essa, ovvero, nel sistema digitale ogni affermazione e informazione assume rilevanza solo in base ad indici di carattere formale, o per logiche procedurali proprie del contesto digitale, ma mai per la propria portata sostanziale, giacché in esso, è impossibile rilevarla.
Alessio e Salvatore Tartaro
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Nel corso di questi primi anni di studio sono riuscito ad apprendere aspetti dei vari autori che trascendono il nozionismo tipico della manualistica scolastica. Il che mi ha permesso di assaporare ancor di più, da un lato, l'estro dell'autore, la bellezza del suo verso, e dall'altro me ne ha disvelato i suoi limiti. Limiti che, sinceramente, ho sempre posto ad una distanza infinita rispetto ai miei e, ancor di più, rispetto alla realtà che mi circonda. Per cui posso anche rimproverare al Tasso di essersi fermato sulla soglia che varcherà poi Leopardi, ma non gliene potrò mai fare motivo di demerito. Questa è anche la ragione per cui mi sono sempre approcciato a questi autori con intenti celebrativi, a tratti, per i preferiti, anche apologetici, ma sempre e comunque reverenziali. Non che non abbia sviluppato un senso critico nei confronti dell'argomento che via via si è trattato, anzi le letture mi hanno spinto proprio in questa direzione, piuttosto perché riconosco una qualunque mia critica, stilistica o ideologica che sia, assolutamente debole ed inefficace quantunque gli attribuisca un grande valore in quanto mia. Significa che adesso, ragionando di d'Annunzio, seppur le mie posizioni politico-ideologiche si discostino dalle sue, anzi in esse trovino il loro opposto, il mio giudizio non verrà assolutamente influenzato. Perché l'uomo muore, il genio sopravvive. E Gabriele d'Annunzio è stato un genio. Mentre le vicende dell'uomo verranno coperte dalle macerie dell'infame carro della storia, il verso del genio echeggerà “finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane” per dirla alla Foscolo, dal quale d'Annunzio avrebbe certamente potuto imparare un po' di dignità. Ma per d'Annunzio essere se stessi coincideva con essere ciò che ci si immaginava. Così le sregolatezza della vita dell'uomo sono le manifestazioni della smania del genio. Un genio che voleva essere genio, questo è d'Annunzio. Ha saputo recuperare una visione della realtà di matrice classica, o comunque classicheggiante, e fonderla con le esperienze decadenti del vitalismo e del sensualismo. Il genio era esteta. La vita si snodava da quella dialettica arte-vita. L'armoniosa bellezza del verso è una costante di tutta la sua produzione poetica. Il verso è tutto è l'espressione che simboleggia questa tendenza cultuale di approccio all'opera d'arte che, di li a poco, sarebbe scomparsa. Così come il memento audere semper rispecchia quell'esigenza del genio di realizzarsi in un vivere inimitabile. E nella narrazione de Il Piacere incontriamo straordinarie contemplazioni della bellezza, come il magnifico ritratto di quella Roma nevosa, un po' piena, un po' vuota, senz'altro decadente. Va così: che per uno spirito così smanioso l'essere esteta, libero, quasi dandy, ma pur sempre espressione di quella borghesia al baratro, non basta. Serve di più. Serve il contatto con l'umanità agglomerata e palpitante. Il teatro. La lettura di Nietzsche lo suggestiona in modo esclusivamente letterario, il viaggio in Grecia lo spinge verso la tragedia; compone La città morta. Anche in questo caso d'Annunzio attinge al classicismo. Recupera interamente la struttura greca della tragedia per reinterpretarla in chiave moderna. Ne viene fuori un dramma statico, dove l'azione è bloccata dalla riflessione, un dramma di sole parole, tendente al catartico senza raggiungerlo. Il genio non è più soltanto esteta, ma anche padrone di quelle folle oceaniche. È esteta-superuomo. L'ulteriore manifestazione di quello spirito grandioso, futurista ante litteram. Nonostante considerasse Marinetti un cretino fosforescente, individuare in d'Annunzio tratti fondamentalmente futuristi è cosa facile; la passione per la velocità, l'interessa per la tecnologia. Elementi che lo trasportano al di là del suo tempo. Ma ad essi si accosta un tendenza che lo trascina indietro, alla gloria classica, fino all'anelito verso una condizione astorica e atemporale di fusione con la natura, che ispira un verso nuovo “I miei carmi son prole..” (Le stirpi canore). Nascono, in questo clima di continua tensione tra il voler superare l'uomo e voler regredire da esso fino a diventare un tutt'uno con quell'anima mundi che è la vera religiosità di d'Annunzio, le Laudi. Un progetto grandioso che, diviso in 7 libri nominati con le principali stelle delle Pleiadi, avrebbe dovuto dare origine ad un'opera unitaria, al cui interno ogni espressione della vita avrebbe trovato il proprio canto. Rimase incompleto. Ma fu abbastanza per fare delle Laudi uno dei testi più significativi della sua epoca. Ed, entrando dentro quest'opera, ci si accorge facilmente come una raccolta straordinaria quale l'Alcyone non compariva in Italia dal Carducci, forse anche prima; e, ancora più fondo, alcune liriche, La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, Stabat nuda aestas, I pastori, Le stirpe canore, rappresentano vertici della Letteratura italiana. Il genio sta tutto qui. Nell'evocare immagini nascoste che una volte raggiunte svaniscono (e qui d'Annunzio è debitore al più grande genio della letteratura, Leopardi, si vedano, per esempio, gli influssi leopardiani ne La sera fiesolana). “Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. / Il ponente schiumò nei sui capegli. / Immensa apparve , immensa nudità” (Stabat nuda aestas). Immagini delicate, estremamente sensuali, di carica erotica ma mai volgari. “Tra le palpebre gli occhi / son come polle tra l'erbe” (La pioggia nel pineto). Ma anche immagini forti “il verde vigor rude” che conservano una plasticità sensazionale. Il verso del d'Annunzio conserva, ancora oggi, una potenza evocativa straordinaria. Quel “Taci”, incipit tra i più indimenticabili della poesia italiana, riesce a trasportare in quel microcosmo dannunziano in cui la vita è ancora “fresca e aulente”. Una vita lontana, che rievoca il mito ma che è, a sua volta, essa stessa divenuta mito, che si rende eterna nell'arte grazie al volere del genio. Alessio Tartaro Nella storia della letteratura italiana la sola poesia petrarchesca regge il paragone con quella leopardiana, non solo in lirismo, ma anche in erudizione e stile. Tuttavia, se in quello spostamento del fulcro da dio all’uomo che è il passaggio dal cristianissimo medioevo all'antropocentrico e quindi laico umanesimo, il Petrarca, e la sua poesia, trovano una loro ragion d'essere, così non è per Leopardi.Nella sua epoca tutta l'Italia canta il valore, inneggia al Risorgimento, sospira il progresso, egli è li, "alla fioca lucerna poetando", a cantare qualcosa di diverso. Assolutamente contro la sua era, in quel momento la sua poesia è fuori dal tempo. Va oltre le concezioni dei contemporanei con una superiorità schiacciante; liquida il progresso, le nuove scienze, il suo tempo tutto, senza sforzo. Gli basta la palinodia al marchese Gino Capponi e qualche altro scritto, i Paralipomeni e i Nuovi credenti, per giustificare in pieno la sua poesia. Leopardi scava nel tempo e nell'uomo cogliendo l'essenza e cantandola. E sarà proprio questo scavare, questo andare oltre che farà del poeta di Recanati, il primo e massimo moderno. In verità la poesia di Leopardi non è fuori dal tempo ma è avanti nel tempo. L'inquietudine, l'ateismo, lo sgomento leopardiano non sono sentimenti dell'età romantica, bensì diun'epoca che deve ancora sorgere. L'oggi. In questo senso Leopardi è un miracolo poetico; non
soltanto per la straordinarietà del verso e per la sapienza nella costruzione poetica, ma anche per la filosofia che ne sta alla base. Il pensiero di Leopardi è un filo ininterrotto che attraversa diverse fasi ma che si snoda a partire da una scoperta fondamentale, quella dell’Unsinn. Il non senso delle cose nel loro fondamento. È una ontologia del nulla. Ed il nulla mostra le cose nella loro fragilità, nella loro effimerità ma proprio per questo le rende amabili in quanto sospese tra una doppia negazione; il loro principio e la loro fine. “A noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla” (Ad Angelo Mai, vv 74-75). Ed è da questa amabilità delle cose che nasce la poesia della pietà. Pensiamo all’Ultimo canto di Saffo, storia dell’infelicità di un animo nobile e delicato posto in un corpo brutto e giovane. Una condizione nella quale il poeta stesso doveva identificarsi; arriviamo così alla conclusione che questo primo sentimento non è rivolto ad altri che a se stesso. Situazione analoga per la pietà mostrata nei confronti di Nerina o di Silvia; il dolore dell’oggetto poetico è quello del soggetto. Viene così a crearsi una corrispondenza tra oggetto e soggetto nella quale quest’ultimo ha un posizione dominante. La poesia di Leopardi è pura poesia dell’io. Foscolo ha bisogno dei Sepolcri per parlare delle “umane sorti”; Leopardi no, è autoreferente. Ogni verso ha la sua genesi nel sentimento del poeta. Da ciò che è amabile, per i motivi già detti, nasce la pietà, da ciò che è ammirabile nasce il titanismo. Ettore, l’eroe sconfitto, è amabile. Achille, l’eroe virtuoso, è ammirabile. E sono proprio queste figure a far nascere il titanismo in Leopardi. Un titanismo comunque che, inizialmente, non conosce ancora l’ineluttabilità di ciò contro cui combatte; più alfieriano che romantico. Lo vediamo nella canzone All’Italia, “L’armi, qua l’armi. Io solo / combatterò, procomberò sol io” (All’Italia, vv 37-38). Qui la responsabilità della sconfitta è data solo ai codardi contemporanei, che sconoscono la virtù antica. Situazione diversa, invece, nell'altra canzone del suicidio “Bruto minore”. Qui il titanismo storico si tramuta in titanismo cosmico, assumendo così pieni caratteri romantici. Leopardi abbraccerà in pieno la filosofia di Bruto, disprezzando ogni forma di consolazione. Posizione che verrà comunque abbandonata negli anni del silenzio della poesia. È il periodo più buio nella vita di Leopardi; chiuso nella riflessione che lo porterà alla composizione delle Operette morali, il poeta assumerà posizioni quasi stoiche, di indifferenza rispetto al mondo. Periodo in cui si ritrova nei panni di coloro che aveva disprezzato nel “Bruto minore”. “De necessari danni / si consola il plebeo” (Bruto minore, vv 34-35) aveva detto. Ma questa fase verrà superata e sarà proprio in un’Operetta, Dialogo di Tristano e di un amico, che Leopardi traccerà la definitiva forma del suo titanismo; una fiera compiacenza, l’orgoglio di essere solo ad avere il coraggio di affrontare il vero, cioè affrontare una vita quasi impossibile a vivere con lacertezza dell’ebrezza del dolore. Titanismo che echeggerà anche nei canti del ciclo di Aspasia, a prova del fatto che questo nucleo di cinque poesie non traccia affatto un dirottamento della poetica leopardiana come sostiene gran parte della critica, ma soltanto un cambiamento dello stile. Abbiamo in Aspasia il sorriso del poeta, ormai maturo, paragonabile a quello di Bruto “e maligno alle nere ombre sorride.” (Bruto minore vv 45). Si è dimostrata così una certa soluzione di continuità, almeno per quanto riguarda il titanismo, tra il Leopardi giovane e quello maturo. Lo stesso vale per la pietà. Il risorgimento della poesia altro non è che il riaffiorare di quei sentimenti grandiosi di cui si era nutrita l’arte leopardiana. Non a caso egli stesso definirà A Silvia e il Risorgimento <<versi veramente all’antica, con quel mio cuore di una volta>>. Direi anche migliori di quelli passati; la pietà raggiunta in A Silvia sfiorerà i toni di un inno alla vita nel comune sentire, nel compatire che altro non è se non l’essenza della pietà. "Mirava il ciel sereno, / le vie dorate e gli orti, / e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. / Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno. / Che pensieri soavi, /che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allor ci apparia /la vita umana e il fato!”. Così come nelle Ricordanze: “Ivi danzando, in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventú, quando spegneali il fato, / e giacevi.”. Non solo questi versi, citati qui ad esempio, ma entrambi i canti sono il dolore che il poeta compatisce nel ricordo di Silvia e Nerina; e nonostante ciò essi sono un meraviglioso inno alla vita. Infine, questi due sentimenti di cui si è parlato, che si erano sfiorati in tutti i canti, finiscono per intrecciarsi nella Ginestra. E simbolicamente in un verso “Non so se il riso o la pietà prevale”. Il riso, simbolo di un titanismo ormai caratterizzato da taglienti sfumature ironiche e sarcastiche, e la pietà, sentimento rimasto intatto per tutta la vita. Titanismo e pietà ancora una volta sostanzialmente unite nell'ultima strofa. Accompagnato tutta la vita da questi due sentimenti, Leopardi non indica ne uno né l’altro. Non il lamento, e neppure l’odio verso l’oppressore. Ma consapevolezza del comune destino di infelicità, senza viltà e senza superbia, su cui fondare le ragioni della solidarietà e della fratellanza, prima di essere inghiottiti dal terrificante nulla. Alessio Tartaro Analogie tra un clamoroso flop discografico dei Guns N’ Roses e l’inalterato successo popolare cinese
Capita che un giorno un uomo si rechi in Cina e casualmente scorga, accostata ad un muro, una bicicletta riferente la dicitura Guns N’ Roses: nulla di apparentemente strano, se non che proprio il soggetto di cui parliamo, vocalist nonché vero e proprio frontman della suddetta band, decide presto di scattarne una foto che diverrà la copertina del suo prossimo album: Chinese Democracy. Mai titolo – unico merito espressivo dell’intera opera – fu invero più azzeccato quanto simultaneamente antinomico, giacché effettivamente sarcastico, al reale oggetto d’ispirazione nonché al clima relazionale spartito dalla sua infelice genesi, seguita ad una sofferta gestazione protrattasi (pressoché una quindicina d’anni) dal 1993 al 2008: anno definitivo d’uscita, tra il 21 e il 23 novembre, dell’album, rivelatosi un clamoroso insuccesso concorde di critica e pubblico. Tanto da produrre la consueta ma ipotizzabile uscita di scena dell’ormai ultimo superstite abilitato a fregiarsi, benché ignobilmente, del nome (dei cui diritti è, suo malgrado, l’unico detentore) della band formatasi a Los Angeles nel lontano marzo del 1985, tra la comune indigenza di cinque giovanissimi musicisti esordienti senza un dollaro in tasca. Viceversa ai tredici milioni malamente investiti per la realizzazione del più recente posticcio lavoro, di cui il New York Times riportò che “il più caro a essere mai stato registrato, non sta riscontrando enormi vendite: in Cina fu addirittura bollato e censurato come un “attacco velenoso a Pechino”. Come confermato dalla testata del partito comunista The Global Times, in un articolo dal titolo “Album di un gruppo americano attacca la Cina”: nazione che, a ciò scrivere, prefigurava persino l’ipotesi – per i sani di mente ovviamente improbabile – di una congiura delle potenze occidentali per “controllare il mondo usando la democrazia come una scusante”; e non, invece e molto più spontaneamente, la psicopatia dell’artefice. Al secolo William Bailey, meglio noto col nome de plume Axl Rose: d’altronde cos’altro attendersi da un soggetto il cui anagramma – secondo una leggenda metropolitana – è oral sex, corrispettivo inglese di fellatio e/o cunnilingus? Malgrado la sua vicenda biografica attesti parimenti reali sodomie subite e imposte, nell’ambiguità psicofisica del caso: fisica al gentil sesso e psichica a tutti quanti gli siano stati sinora accanto. Tra cui gli ex membri del gruppo da lui snervati sino a scaturirne, uno appresso all’altro, il risolutivo abbandono che lo costrinse a cercare sempre nuovi strumentisti per ultimare un lavoro che patisce difatti moltissimo dell’assenza di carisma propria dei Guns originali: i cui componenti attualmente patiscono – chi più chi meno – un inevitabile declino professionale, incapaci di riacquisire quell’epocale ascesa che tutti assieme li condusse, dall’87 al ’93, a conseguire le più alte cime musicali da cui non proprio accidentalmente rotolarono per quell’inusuale quanto imprevedibile obbrobrio di cover punk rock, ossia The Spaghetti Incident?; principio della fine, come nuova risalita voleva attestarsi l’anomalo ultimogenito, musicalmente analogo all’incresciosa situazione politica cinese, repubblica popolare già secolarmente retta da nazionalismi autoritaristi e tuttora inossidabilmente gestita – dal remoto 1949 – dal Partito Comunista più grande del mondo, con i suoi oltre sessantasei sinistri milioni d’iscritti. Non solo numeri, ma anzitutto (forse!) individui, benché tra essi praticamente irriconoscibili, quasi clonati come Chinese Democracy, che complessivamente evidenzia una quasi mestamente ineluttabile decaduta nel pop “giustificabile” dall’opulenza dei tempi correnti e, in talune tracce, persino riff vagamente campionati laddove non direttamente ripresi dall’ultimo vero lavoro. Di Use your illusion, doppia ed esaltante fatica del 1991, se ne risente parecchio l’influenza, anche in virtù della contiguità temporale nella composizione dei brani, tutte pensati tra il 1993 e il 1998, ossia nel periodo immediatamente successivo l’uscita di quegli ultimi già citati e contemporaneamente al progressivo scioglimento del gruppo originario: di cui è rimasto – oltre Axl – solo il tastierista Dizzy Reed, l’unico che – a quanto percepiamo – riesca a tollerare manie e fobie di Rose. Gli altri disertarono pro tempore come moltissimi figli di Mao tuttora fuggono da un paese davvero irriducibile, benché sporadiche dichiarazioni ufficiali rilasciate dalle autorità politiche vogliano una struttura democratica tuttora incompiuta (ne fu riprova la pessima reazione alla notizia dell’assegnazione del Premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo), poiché nonostante negli ultimi quinquenni il governo abbia provveduto ad una serie di riforme garanti un libero mercato, languiscono tuttavia libertà politiche e civili nella sfera dei fondamentali diritti umani: di cui, attualmente, paiono chiaramente sguarniti i suoi stessi cittadini, stando a ripetute violazioni e abusi delle norme generalmente riconosciute dai trattati internazionali. Diverse fonti narrano come nelle carceri laogai sussistano condizioni disumane sfioranti lo schiavismo e comprensive di tortura e lavaggio del cervello nonché – assurdo oltre ogni immaginazione – il più elevato numero di esecuzioni capitali, in ogni sua provincia: la pena di morte miete difatti ancora qualche migliaio di vittime all’anno; dalla maggior parte delle quali vengono contro legge espiantati, quasi sempre non consensualmente, organi destinati ad incrementare il globale traffico illegale, come i demo circolanti sul web prima dell’uscita dell’album, che i legali di Rose fecero immediatamente rimuovere, con i mezzi economici del cantante certo anche consoni all’uomo reo d’aver inoltre ucciso il nascituro che una delle sue mogli avrebbe custodito in grembo. Il piccolo sventurato sarebbe ufficialmente stato il suo primogenito e non un successivo minore, in regolamentare ossequio alla pianificazione familiare obbligatoria voluta da Mao Zedong e regolata dal 1979 dall’apposita “Legge eugenetica e protezione della salute”, che prevede un massimo di un figlio nelle zone urbane e due in quelle rurali, mentre in quelle più montane – quali il Tibet – s’assiste all’occupazione militare per reprimere l’opera morale di sensibilizzazione mondiale voluta e condotta dal Dalai Lama. Ma ogni singolo accadimento v’appare lì quasi un nonnulla, dinanzi l’onnicomprensiva visione dei fatti: quella che qui pare proprio offuscata o meglio mascherata, come la libertà d’informazione che costringeva Google ad obnubilare talune ricerche condotte in territorio virtuale cinese. Finché intorno a metà dicembre 2009 misteriose – quanto però mancate – offensive informatiche “gialle” (come la lunga chioma del burbero cantante) probabilmente indotte ad accedere agli account Gmail di svariati attivisti cinesi per i diritti umani, che spinse il colosso americano (perplesso dalle indagini interne capaci di rilevare solo qualche convenuto e fittizio capro espiatorio, nonché dal disaccordo nel proseguire ad offuscare alcuni specifici risultati dalle sue ricerche) a chiudere il dominio google.cn: Axl prenda saggiamente esempio e smetta di esibirsi stupidamente laddove non sussistono più le condizioni, oltretutto vocali, per farlo. Quella nel cd suona difatti una voce parecchio filtrata tanto pesantemente quanto le notizie dalla Cina e, soprattutto, è sacrilegamente priva di quella contrassegnante raucedine naturale ormai perduta e capace di esaltarne, un tempo, la straordinaria abilità interpretativa. A scomparire aveva tuttavia anche meditato, rendendosi irreperibile nei mesi successivi l’uscita di un album – giustamente – poco pubblicizzato e pertanto scarsamente noto se non agli aficionados, per i quali si configurava come un prodotto già anzianotto, conoscendolo parzialmente dal web: neppure questo possono invece i numerosi fan cinesi, giacché il sito di MySpace della band fu appositamente oscurato come quel rude volto vichingo timoroso di mostrarsi dopo il mastodontico flop discografico, irriverente al cospetto dell’inalterato successo popolare cinese. Di cui l’album serba il preterintenzionale fanatismo ideologico del megalomane che l’ha letteralmente coprodotto: come in ogni sistema dittatoriale e totalitarista, come il dirigismo assolutista di Axl nel pretendere ogni diritto del marchio Guns N’ Roses e, con esso, l’epilogo stesso del nome … Roberto Scaglione P.S. Ho fatto un pezzo sui Guns: non è una cover. E’ palloso. Più dell’album. Ho atteso oltre un lustro per pronunciarmi – senza dir nulla, come mio solito – in merito a quella singola corbelleria dal duplice attributo ma senza palle; da allora, purtroppo, l’album non s’è ancora reso granché udibile, riserbando di chinese solo la copertina: in parallelo la cacofonica dittatura mandarina preserva, della democracy, la sola utopia. Quando, sul finire degli anni '70, Verga concepì quel maestoso progetto letterario che doveva essere “Il ciclo dei vinti” egli aveva ormai una coscienza letteraria ed ideologica, datagli dalla carriera e dalle vicende della sua vita, che doveva essere il presupposto del ciclo. Questa coscienza rappresentava le fondamenta di un qualcosa che doveva poi ergersi da se. Ed allora, già li, nell'origine più profonda della creazione artistica, Verga presenta inconciliabili contraddizioni. La prima è la sua idea di progresso. Un'idea di fronte alla quale già il nascente marxismo si stava scindendo, e che aveva messo in cattiva luce Zola, attento solo al moto complessivo, al cammino trionfale dell'umanità. Un'umanità che, in questo continuo tendere al progresso aveva perso pezzi per strada. Ecco Verga colloca la sua ideologia sul progresso proprio in questo piccolo spazio dimenticato dai francesi. Chi è degno di attenzione non è più l'umanità che avanza, ma chi è caduto per strada, chi, per dirla alla Verga, la corrente ha deposti sulla riva. Sono i vinti. Verga assume, dunque, il punto di vista dell'osservatore che, travolto anch'esso dalla fiumana del progresso, si guarda intorno e da attenzioni ai vinti che levano le braccia disperate. Da qui l'impersonalità. L'oggetto dice già tutto da se, come quelli che davano calci nel di dietro a Mazzarò, e adesso gli parlano col berretto in mano. La materia detta lo stile. Abbiamo una teoria dei livelli sociologici-espressivi per la quale ogni romanzo avrà la sua fisionomia speciale, resa con i mezzi adatti. Questa è, allo stesso tempo, l'esasperazione e la negazione del naturalismo. Esasperazione in quanto pretende di adattare continuamente la lente all'oggetto e negazione in quanto rinuncia a quell'unicità del metodo artistico divenuto ormai pseudoscientifico, rilanciando una responsabilità personale dell'artista, che ha il compito di creare di volta in volta soluzioni estetiche che si adeguino all'oggetto. Altra contraddizione quindi. Come contraddittorio è la concezione che Verga ha del mondo popolare. Una concezione nata più come antitesi della realtà vissuta, che frutto di esperienza vissuta. Se a Milano si viveva in una atmosfera di banche e imprese industriali, in quel mondo popolare siciliano, che era il solo mondo popolare che interessasse a Verga, doveva viversi in una quiete patriarcale. Ed è riferendosi a quel primo abbozzo dei Malavoglia, Padron 'Ntoni, che Verga dichiara di voler dargli un'impronta di fresco e di sereno raccoglimento. Il che nel libro manca. Perché più l'artista osserva Aci Trezza, intento a scoprire quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio, più si accorge che essa è come Milano. Che anche lì ci sono i vinti. Che i vinti sono ovunque. E allora il mito del progresso è bello che dileguato, già alla prima tappa del ciclo. E l'unica verità resta quella di Alessi e Nunziata, quella dell'ideale dell'ostrica, del rinunciare alla vita. Tutti gli altri personaggi hanno delle colpe; la colpa di volere mangiare pasta e carne ogni giorno. Ma la pena per la loro hybris è assolutamente sproporzionata. Perchè ogni qual volta la famiglia sta per rialzarsi arriva qualcosa ad abbattere tutto? Certo nella vita reale può essere così, ma può anche essere il contrario. Ed ecco emerge l'ennesima contraddizione verghiana: da un lato la spinta verista a comprendere i processi sociali, dall'altro la convinzione, tutta ideologica e sentimentalista, che la vita è fallimento e fatica, e che ogni tentativo di progresso costa pena e si paga. Ma come si può condannarli, quando essi conservano comunque la coscienza e il rispetto per leggi non scritte che reggono la convivenza tra gli uomini? Ecco di nuovo quel giudizio sospeso, perchè deve essere sospeso. E allora dov'è il messaggio. Forse non c'è, perchè i Malavoglia dovevano essere solo un tassello di un ciclo che avrebbe dato un messaggio. Ma alla fine 'Ntoni dice di avere imparato una lezione. Una lezione di economia sociale, che l'ordine costituito non va rotto, e che restare attaccati allo scoglio è una legge supresa. Ma anche una lezione morale, che quella legge deve essere la propria legge morale, e chi sbaglia paga. Ed alla fine la sconfitta di 'Ntoni non è soltanto sociale e morale, ma anche affettiva. Egli riscopre quegli affetti che riempiono la vita e a cui adesso deve rinunciare. E come in Manzoni, dicendo “la sventurata rispose”, fonde pietà e condanna, fato e responsabilità, così Verga scaccia 'Ntoni dall'Eden ma gli da la coscienza dell'Eden. Che egli ha perso, per colpa sua. I Malavoglia, quindi, è il primo romanzo del ciclo, ma tanto grande da potere essere letto anche al di fuori del ciclo. Ed esso rappresenta anche il vertice stilistico della produzione di Verga. Il narratore è come un dio onnipresente e nascosto. Il racconto è filtrato attraverso un coro di parlanti popolare i quali esprimono l'anima folklorica del villaggio. Verga ha scelto di raccontare gli eventi come essi si rispecchiano nelle teste e nei cuori dei suoi personaggi. Approda così ad uno stile in cui la struttura e la sintassi dialettale non coinvolge il lessico e la morfologia, ma è finalizzata alla resa impressionista in termini di mimesi pseudo-oggettiva. Riuscendo così a soddisfare le istanze di impersonalità ed oggettività, Verga finisce per allontanare infinitamente il narratore e l'oggetto narrante, rendendo impossibile al primo ogni rapporto critico e dialettico con il secondo, chiudendolo in un carattere di mito remoto ed inaccessibile, lontano dal realismo. Criterio che verrà abbandonato nel secondo romanzo del ciclo, Mastro-don Gesualdo. Qui la narrazione si muove in una direzione più demistificatrice e dissacrante, quindi più reale. Verga intraprende una strada più espressionista, ed è proprio nel Mastro-don Gesualdo che ritroviamo i primi esempi di tecnica espressionista del ritratto, dove la deformazione grottesca-iperbolica delle linee e delle forme fisiche dei personaggi (vedi il ritratto della Margarone) rispecchiano il mondo fatiscente e decrepito della vecchia aristocrazia, di un mondo in disfacimento. Verga esplora quindi soluzioni prima impressionistiche, poi espressionistiche per adattare lo stile alla materia. Ma quali altre frontiere avrebbe dovuto esplorare per proseguire nel suo intento? Probabilmente frontiere della narrazione che neppure esistono. Frontiere che neppure Pirandello e De Roberto esploreranno, continuando a proseguire su quella linea espressionista, la più giusta per una visione critica e demistificante della realtà. Quindi, se il repellente alla continuazione del ciclo non fu lo scarso successo commerciale dei due romanzi, probabilmente fu questo; la continua ricerca di uno stile nuovo. Stile che comunque non riuscì a trovare per la realizzazione de La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso.
Alessio Tartaro Di Luigi Pirandello si sono dette tante cose; forse perché, in effetti, l'opera di Pirandello ha tanto da dire e, ancor più, perché la realtà storica ci mostra ancora oggi le rapsodiche intuizioni sottese alla sua produzione. Ogni discorso a proposito di Luigi Pirandello però, tra le tante voci, non può prescindere dalla lettura tilgheriana inerente ad esso. Tuttavia spiccano pagine di notevole critica anche da Gramsci, che produce a proposito di Pirandello nella solitudine, che significò anche isolamento ed indipendenza, dei Quaderni del carcere, al quale si aggiunge Leonardo Sciascia, con una concezione diametralmente apposta a quella del Tilgher. È più facile, invece, individuare chi, dell'opera pirandelliana, ebbe una concezione fortemente negativa; Benedetto Croce. Comunque sia, nella stroncatura crociana, che si appellava agli stessi capi d'accusa rivolti al Leopardi, una incompatibilità tra pensiero e poesia in quanto risultato di due diverse facoltà umane, si può individuare già una comprensione profonda del significato della produzione pirandelliana. Croce aveva intuito come l'opera di Pirandello rappresentasse letteralmente la negazione di quei valori moderni, tipici dell'idealismo, quei valori di cui tutto l'Ottocento si era nutrito e che adesso, proprio nell'autore siciliano, manifestavano il loro fallimento. Pirandello si mostrava molto più pericoloso, nell'ottica di Croce, di quelle correnti avanguardistiche che, con molto clamore, attingevano a filosofie irrazionalistiche ma inevitabilmente destinate a nuovi sbocchi metafisici; così, come antitesi al modello crociano, l'arte di Pirandello, con la sua disperazione antifilosofica, metteva in scena il fallimento della logica formale e l'alienazione idealistico-borghese, sottraendosi a quella dimensione lirica e tuffandosi in una denuncia di quella crisi irreversibile e totale che apriva un vuoto di fronte al quale si mostravano inadeguate le sistemazioni della filosofia e della morale tardo-ottocentesca. Considerando i capisaldi della poetica* piradelliana tale contrapposizione risulta netta: innanzi tutto il senso dell'assurdo della vita, della mancanza di razionalità nell'accadere delle cose. È lo stesso sentimento che prova “Il grande mascherato” Enrico IV nell'omonima opera, o Adriano Meis nel “Il fu Mattia Pascal”. E in questa straordinaria opera, la prima di Pirandello, è presente anche il secondo di questi capisaldi; la mobilità dell'essere, la continua ed inarrestabile trasformazione delle cose, destinate e diventare altro, come la vita nel suo fluire di forma in forma. Altro elemento importante nella poetica pirandelliana è, ancora, l'impossibilità della rappresentazione obiettiva e diretta della realtà, che diventa pura apparenza dietro alla quale si cela l' essenza delle cose. È il tema affrontato, anche se solo dal punto di vista del contenuto, in “Così è se vi pare” mentre lo stesso si evolverà in forme più complesse fino ad approdare a “Sei personaggi in cerca d'autore” dove, insieme alla critica al teatro e all'analisi del processo creativo dell'artista, questo sentimento dell'impossibilità alla rappresentazione va a coinvolgere, e sconvolgere, le strutture formali dell'opera teatrale mettendo in scena “cose da pazzi” come ebbe a dire il pubblico della prima al Teatro Valle di Roma nel maggio del '21. Tutto ciò provoca, infine, la certezza che il discorso, inteso ancora come flusso sempre nuovo per cui può creare ma allo stesso tempo sempre uguale da potere essere riconosciuto, sia l'unico modo con cui l'uomo possa rappresentarsi il mondo. Pirandello si muove qui, in questo groviglio di pensieri assurdi, di sentimenti tetri possibili da esprimere solo attraverso la narrativa ed il teatro, perchè sono proprio in essi tale pensiero, oltre che manifestarsi, si costituisce. Per questo motivo Pirandello non può dirsi filosofo; perché quei capisaldi citati, estrapolati dalla produzione pirandelliana, non sarebbero mai potuti venire fuori come pensiero puro, filosofico, in quanto intrinsecamente connaturati a quelle concezioni pessimistiche non esprimibili se non come sentimento.
*Nonostante in molti si riferiscano al pensiero di Pirandello come filosofia è bene parlare di poetica, in quanto egli operò nel campo della narrativa e del teatro; quest'equivoco filosofia-poetica è ancora più netto in Leopardi. Alessio Tartaro |
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May 2014
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